LA POESIA DELLA AGRICOLTURA INTENSIVA La pulizia dei fossi di confine incominciava prima della potatura degli alberi e delle viti e, tra le sospensioni e le riprese del lavoro, occorrevano due anni per condurla a compimento. Ricominciando da capo gli operai scalzi e scamiciati si affondavano nei fossi a sradicare a sbarbare tosare e scavare solo dopo aver sgomberato dalle prode lo spurgo ammucchiato l’anno avanti che nel frattempo aveva maturato e che veniva sparso come ottimo concime sugli appezzamenti destinati a canepa. Veramente quella periodica pulizia non permetteva troppo agli spini ai fusani e ai rovi di svilupparsi liberamente e di prosperare a volontà; in un anno di quiete avevano appena il tempo, sanate le ferite delle roncole e delle vanghe, di buttare qua e là polloni anemici e stendere timidi arabeschi di ombre incerte e magre; le code di cavallo, queste sì, approfittando della piazza pulita, innalzavano dappertutto i loro pallidi pastorali a compartimenti stagni come translucide reliquie d’acqua, e i girini facevano interminabili gare di corsa nel rigagnolo limpido del fondo su cui non tardava a vedersi la sagoma immobile quasi irreale del luccio pensoso. Ora i ladruncoli di foraggio e di canepa non avevano più nei fossi, un giorno impenetrabili macchie e labirinti aggressivi, il comodo rifugio e il sicuro nascondiglio della refurtiva; sorpresi e urlati dai guardiani, per sottrarsi ad un accanito inseguimento e far perdere le proprie tracce, si vedevano costretti, abbandonato il fascio, a saltare l’ostacolo o a darsela a gambe come le lepri lungo le piste delle cavedagne. Mi era sempre stato facile mettermi d’accordo con gli agricoltori frontisti per lo spurgo simultaneo dei fossi: la mia squadra d’operai, attaccava il fosso di qua, mentre di là un’altra squadra la secondava. Così il lavoro procedeva spedito e regolare. Le cose però si complicavano quando si arrivava al braccio di fosso che separava a nord le mie terre dal fondo di un agricoltore che, facendo l’avvocato, viveva la più parte dell’anno in città. Non era possibile fare intendere a costui la ragione. Egli non voleva assolutamente saperne di nettare il suo fosso. Che io sbrattassi e scavassi la mia metà, parallelamente alla sua anche due volte all’anno; ma la sua era deciso che doveva restare così: sterpaglia infetta e stagno abitato da rettili, per l’eternità, perchè così gli piaceva. Non gli importava nemmeno che l’acqua marcia traboccasse e invadesse il campo, compromettendogli il raccolto. Siccome il lavoro compiuto solo dalla mia parte sarebbe stato un non senso, per non darmi vinto davanti a quella ostinazione ed irragionevolezza, lo assediai talmente di richieste e di pressioni, che riuscii a strappargli il consenso che io avrei pulito metà fosso, dalla parte mia e dalla parte sua, e che l’altra metà sarebbe rimasta vergine con la sua acqua marcia tappata da un piccolo argine e il suo ginepraio di malepiante ispide e velenose. Ma ogni due anni ero costretto ad appostarlo per strappargli il nuovo consenso. Appena lo scorgevo sul suo fondo, in una delle rare visite che egli faceva venendo dalla città, gli gettavo una voce e lo obbligavo a star fermo un momento. Non riuscii mai a vederlo ad una distanza inferiore al centinaio di passi; ed ebbi sempre l’impressione di trovarmi in presenza, non di una comune figura umana, ma di una strana e informe massa biologica che, così insaccata in due stivaloni a tromba da cacciatore di palude e ravvolta da un gran mantello scuro si movesse per forza d’inerzia e col favore del vento che aiutava anche quella specie di mugolio con cui rispondeva alle mie domande. Per intenderci, dovevamo urlare come se litigassimo. Le parole sferzavano l’aria gelida come ingiurie taglienti. Il saluto finale pareva il gesto di una spaventosa minaccia. Era solo durante le fugaci rade visite dell’avvocato grassone che il versuro confinante con le mie terre pareva insolitamente animarsi; perchè per tutto il resto del tempo, con qualsiasi stagione, il fondo strano e misterioso come il suo proprietàrio, ripiombava da un capo all’altro nel suo cupo e sinistro limbo di silenzio di squallore e d’inoperosità. Io non avevo mai messo piede in quel fondo curiosamente denominato la « Truzzara », benché ne avessi sempre avuto il più vivo desiderio e l’occasione di farlo si presentasse ogni giorno, come cacciatore, come assetato, oppure come acquirente di bovini di foraggi o di semi selezionati. Ogni pretesto era buono per introdursi nel cortile della casa colonica, per entrare addirittura nella casa o nella stalla: non è qui il tal sensale? non sapete il giorno che verrà il padrone? avete già combinato per la trebbiatrice? Ma per quanto fossi passato infinite volte davanti al suo ingresso, percorrendo la strada di campagna che conduce al paese, pur con quell’inconfessato desiderio, avevo sentito che qualche cosa, una specie di malefico influsso, mi spingeva sempre via da quel luogo su cui pareva pesare l’aria maledetta e ripugnante che hanno tutti i luoghi che nascondono la storia di qualche delitto mostruoso o di qualche terribile nefantezza umana. Non potevo mai fare a meno, passando, di dare un'occhiata torbida ai fabbricati, casa e fienile, senza per altro riuscir mai ad afferrarne il preciso disegno. Tutto mi ondeggiava davanti allo sguardo con l’instabilità l’incompiutezza e l’incoerenza delle cose dei sogni. Sembrava in realtà che quel gruppo di fabbricati facesse di tutto per nascondersi e sottrarsi all’ispezione e alla curiosità del passante. La casa colonica non vi presentava che di sghembo il fianco bianco abbagliante di calce, in alto verso il tetto rigato dai lunghi vermi sporchi dei colaticci delle piogge invernali, in basso dalle profonde scalfitture orizzontali prodotte dai mozzi delle ruote dei carri o dalle stanghe sfregate contro l’intonaco. Uno zoccolo di inzaccheratura grigia e ruvida, andava da un capo all’altro della parete, regolare ed uniforme. Del fienile si scorgeva solo lo spiovente del tetto, di un rosso violento di nuvola al tramonto, perchè la visuale era completamente sbarrata dal pagliaio collocato attraverso l’entrata, parallelamente alla strada. Il terreno era molto basso e, durante i periodi piovosi, andava soggetto a vasti allagamenti che luccicavano di lontano dandogli l’apparenza di un acquitrino alberato. Non ricordo di aver mai visto là dentro contadini al lavoro; ricordo solo di aver udito venire di laggiù voci assonnate di galline, e di aver scorto tra l’erba lunghe orecchie assorte, candide o color tabacco, di conigli che invadevano e brucavano i raccolti con la massima libertà. Passando da quelle parti, mi rompevo il braccio per tenere al guinzaglio il mio cane da caccia che avrebbe voluto balzar dentro quei trifoglieti ronzanti a sfar strage delle insipide brutte bestie, e a venirmele a mollare sui piedi sventrate e sanguinanti. Ogni tanto vi echeggiava la voce alterata e nasale del grassone, piombato dalla città a impartire ordini e ad infliggere rimproveri crudeli ad esseri invisibili. Si scorgeva il suo mantellone scuro gonfiarsi al vento nei prati, e da vicino i cespugli d’acqua schizzata che faceva sul suo passaggio bestemmiando, allorché affondava gli stivaloni insaccati di livida ciccia e di sego nelle pozzanghere nascoste dal tappeto dell’erba primaverile. Se avessi avuto il coraggio di affrontarlo risolutamente mentre era in visita al fondo, forse avrei potuto comperare dal grassone una quantità di cose utili alla mia azienda: non era un ebreo? Forse era più trattabile di quanto non si pensasse. Sarebbe stata un’occasione favorevole per fargli dimenticare la storia del fosso che me lo aveva fatto inimicare, e stabilire buoni rapporti di vicinato giovevoli a tutt’e due. Ma intanto la cosa che più bramavo e gl’invidiavo era il suo letamaio: un cubo enorme incredibilmente massiccio e nero come tabacco da ciccare, che si vedeva al mattino coperto di un corto fumo bianco, leggermente sfumato in rosa dall’alba, che per me era più dolce della delicatissima nebbiolina assembrata intorno alla pelle violacea delle susine claudie. Se avessi potuto rubarglielo fino all’ultima briciola, l’avrei fatto senza scrupolo. Non me lo avrebbe venduto nemmeno a peso d’oro. Si capiva troppo bene ch’egli lo teneva lì inutilizzato, apposta per fare la disperazione degli agricoltori circostanti che non ne avevano mai abbastanza di ingrassi per le loro terre spolpate. Ricorrevano ai costosi panelli, alle crisalidi, al sangue, ai nitrati, all’addiaccio; ma avrebbero voluto possedere più d’ogni altra cosa quel prodigioso letamaio della « Truzzara » che maturava inutilmente da tanti anni, lì così sottomano, e più distante della luna. Doveva avere tutto intorno un vero lago di intingolo nero, a giudicare dal rigoglio delle erbe che raggiungevano, pompando quei sughi prodigiosi, la cima del letamaio. Per rubarglielo nottetempo, avrei volentieri consumato una cassetta di sugna buona come il sapone, per ungere i mozzi e una ventina di « pipai » di stoppa per fasciare i cerchioni delle ruote dei carri che non stridessero sulla ghiaia del cortile. Il letame, a caricarlo coi forconi, non avrebbe fatto più rumore di palate di argilla. Si sarebbe sentito solo il soffiare affannoso dei buoi da timone, quando fosse venuto il momento di smuovere i carri appesantiti di tutto quel marmo nero; ma i contadini non se ne sarebbero allarmati: avrebbero creduto di aver dimenticata aperta la porta della stalla. Non gliene avrei lasciato una sola pipata. Il grassone, venendo in visita dalla città, sarebbe rimasto istupidito davanti alla piazza pulita del letamaio. Chiesto ai contadini con un cenno del capo dove quel tesoro nero era andato a finire, i contadini, senza scomporsi, gli avrebbero risposto : « Mah! Si vede che di notte son venuti gli angeli e l’hanno portato via, nascondendolo nei terreni magri per far nascere delle spighe più pesanti delle trecce delle contadine, del granoturco con delle pannocchie come dei bambini da mammella e dei caneponi grossi e lunghi come pioppelle di un anno ». Egli correva sfangando nei campi, in cerca del letame trafugato. Aveva un bel cercare. L’aratro l’aveva già profondamente rivoltato e impastato con la terra che se lo stava golosamente ciccando, con qualche rigagnolo nero qua e là per i labbroni dei solchi come quei galloni neri di deliziosa liquerizia che i ragazzi si lasciano scolare dagli angoli della bocca sulla camicia di bucato indossata per andare alla sagra. Sono ormai vecchio e inesorabilmente succhiato dalla poesia. Ma basta ch’io rivolga un momento il pensiero alla sfortunata esperienza di agricoltore della mia lontana giovinezza, perchè veda subito ondeggiarmi davanti agli occhi incantati il dolce fumino sfumato di rosa del miracoloso letamaio. Col letamaio rivedo la riva nuda del fosso piena di pioppine esili e fruscianti che rassomigliavano ad una fila di ragazze senza mammelle e senza fianchi, tutte fremiti e fruscii di vestiti di foglie e di capelli. Ma non soltanto il letamaio agognato e il fosso disputato. Rivedo anche e sopra tutto la scena del drammatico annegamento della bambina dei contadini della « Truzzara », e provo un violento rimescolìo del sangue come quel giorno funesto. E non importa ch’io abbia assistito al triste caso, o esso mi sia stato riferito. Sentivo troppo bene che il solo responsabile ero io; perchè senza la mia maledetta manìa di ordine e di pulizia, la povera piccina non sarebbe mai caduta nell’acqua. Nella mia parte di fosso non c’era un solo sprocco per afferrarla e trattenerla per lo straccetto delle vestine. Nella parte di fosso del grassone, la paura delle biscie e l'impossibilità fisica di rompere l’intrico dei rovi e degli spini, l’avrebbe tenuta lontana da ogni pericolo. Qui era un’altra cosa. Il fascino maligno dell’acqua aveva avuto facilmente ragione dell’inesperienza e dell’innocenza della candida bambina. « Guarda dunque come brillo di gemme di bollicine! Non vedi quanti coralli neri di girini, quante scatole magiche di rane verdi e pezzate? Perchè non vieni qui sotto a giuocare con me? ». La bambina si era lasciata trascinare e ingannare dall’acqua limpida e perfida. La povera mamma corse come una pazza fino al fosso, senza aprir bocca. Si buttò a terra sulla proda e bastò che si sporgesse e allungasse il braccio tremante per pescare la sua misera creaturina. Quando si alzò con la piccola annegata in braccio, apparì subito inzuppata dal collo ai piedi come se si fosse stretta al petto una sorgente. Incamminandosi lentamente verso casa, cacciò un lungo interminabile ululato di belva ferita a morte. E fu come se un’orrenda massa di dolore avesse fatto improvvisamente irruzione dalla terra o si fosse abbattuta dal cielo, di cui lei fosse l’oggetto designato e la miserabile vittima; come un albero aggredito e squassato dalla furia devastatrice della bufera o una casa nel paesaggio massacrato e incenerito dal fuoco urlante del sole di agosto. Quel fosso allora l’ho davanti agli occhi commossi come una reliquia trasparente. Lo vedo riempito a metà d’acqua chiarissima perfidamente atteggiata a un fresco sorriso, limitato e sagomato come una lunga bara di cristallo, con la bambina annegata distesa e composta sul piano inferiore, come un roseo difetto nello spessore del vetro. Ogni volta che mi metto ad odiare la poesia, rimpiangendo le mie belle terre perdute, si ripete lo spettacolo della visione e del ricordo di quel caso pietoso. E la poesia aborrita si vendica dell’abbandono, facendomi pesare orribilmente sulla mia vita di agricoltore sfortunato l’orrore di quell’involontario infanticidio. CORRADO GOVONI