LA POESIA FUTURISTA SOLO IL VERSO LIBERO PUÒ INTONARSI ALLA SENSIBILITÀ E ALL’ INDOLE DEI NOSTRI TEMPI Il mio pensiero sulle forme chiuse del verso e sulla nostra tradizione e questo. I metri della nostra poesia non son nati tutti di colpo come i funghi del bosco alla prima pioggia stagionale; ma costituiscono un patrimonio che è solo il frutto da interminabili evoluzioni e rivoluzioni. Niente dunque conquista statica, fissa e immutabile: vorrebbe dire irrigidimento e morte. La poesia, invece, è la più agile e la più duttile e perciò rivoluzionaria espressione del sentimento, se è vero che è nata dall’urto stesso del sentimento insieme alla parola, vera ed unica creatrice e rivelatrice questa di ogni senso e di ogni cosa. Ogni tentativo di chiuderla (riguardo alla forma) e di limitarla a schemi fissi, è, non dico assurda, ma puerile. Perché fanno addirittura compassione i richiami e le invocazioni che arrivano da tutte le parti coi treni del mattino della critica, alla abusatissima tradizione. La nostra tradizione (come tutte le tradizioni, o signori critici) non é che la somma di tante e diverse rivoluzioni, o conquiste o esperienze che dir si vogliano. E se esiste una tradizione per gli artisti geniali di tutti i tempi e di tutti i climi, è proprio la sola tradizione di essersi infischiati e di non avere mai, per se, riconosciuto alcuna tradizione. Il grande artista non può riconoscere altra legge altra misura altro ordine all'infuori della propria assoluta e sconfinata e incondizionata indipendenza, che può benissimo essere (anzi é sempre), rispetto alle ristrette possibilità degli altri, la più schietta anarchia. E' sempre dal genio, dalla originalità e dalla forza e dalla eccezione del grande poeta che nascono la regola la misura la norma e l’ordine comune per i mediocri e per gli impotenti: cioè per la moltitudine dei rimasticatori e degli epigoni. Come ogni epoca ha avuto le sue forme metriche caratteristiche (insieme ai costumi morali e politici): il Trecento la terzina, la canzone e il sonetto, il Cinquecento l’ottava, e l’Ottocento il trionfale endecasillabo sciolto; la forma caratteristica della poesia del nostro secolo sarà indubbiamente il verso libero. A proposito del quale mi piace di informare il mio grandissimo amico MARINETTI (il più disinteressato e generoso mecenate di poesia di tutti i tempi) che il primo cospicuo saggio di esso è un indiscutibile vanto italiano. Intendo parlare de «La Ginestra» di GIACOMO LEOPARDI. E' una rivendicazione doverosa. Infatti tutti i compilatori di antologie scolastiche che affliggono il nostro paese, e tutti gli occhialuti nasuti e barbuti schiccheratori di prosodia, se hanno buon giuoco di ricorrere alla vivisezione delle minori canzoni leopardiane applicando ad esse l' ingegnoso abracadabra dei loro ridicoli schemi: AB e d ABC e FB e FHGlhl-Mim, ecc, per ogni strofa di numeri pari o dispari, è per altro ben vero che posti davanti a « La Ginestra », perdono di colpo la bussola, non sanno più a che santo votarsi, e se la cavano con l' allegra frettolosa definizione « strofe libere con rime nel mezzo dei versi ». E’ il caso di ripetere qui il verso del Leopardi: « non so se il riso o la pietà prevale ». Appare più che naturale che le diverse forme metriche rispondano e s' intonino perfettamente all'indole e alla sensibilità dei tempi in cui si presentano. Come sarebbe anacronistica, oggi, una gara di corsa con bighe che non avesse altro intento all’infuori di quello della canzonatura, e semplicemente carnevalesca quella signora che si ostinasse, per il treno, l’automobile e l’aeroplano, ad indossare la gonna col guardifante, o preferisse ai moderni e comodi e veloci mezzi di trasporto, per un lungo viaggio, per esempio, da Roma a Napoli, la diligenza sconquassata della nostra nonna; così è più che giusto che appaiano anacronistiche e ridicole le vecchie forme metriche quando siano adottate per esprimere la nostra inquieta vertiginosa sensibilità moderna. Non vuol dire un bel nulla, se ancora oggi qualcuno di noi, poeti modernissimi al cento per cento, commette il peccato mortale di viaggiare nelle carrozze col postiglione e la sonagliera delle quartine, o magari di adagiarsi su quella specie di pitale metrico che è l’odiatissimo sonetto. Chi non ha sulla propria coscienza simili peccati di facilità, di pigrizia e di viltà, scagli la prima pietra. A proposito del verso libero delle parole in libertà e della simultaneità, è necessario qui denunciare la malafede pacchiana della critica. Si afferma volentieri che queste nuove conquiste hanno finito col distruggere la poesia. Si dimentica volentieri che codeste forme sono dei mezzi tecnici più rispondenti e più appropriati alla nostra sensibilità, niente altro. Sarebbe come se si volesse dare ad intendere che i nuovi mezzi di locomozione, treno, motoscafo, aeroplano, automobile, non hanno più diritto di appartenere alla categoria dei veicoli e che non sono più da considerarsi mezzi di trasporto, perchè adattandosi (o creandolo di sana pianta) ad un bisogno di maggior velocità di spostamento da un luogo ad un’altro, in confronto delle bighe dei carrettini e delle portantine, hanno distrutto ogni ragione di spostamento e l’essenza dello spostamento stesso, proprio ora che lo servono infinitamente meglio dei trogloditici mezzi di una volta. Un assunto che non otterrebbe fortuna nemmeno presso un ciecosordomutoparalitico di nascita. Figuriamoci poi presso gli ammaliziatissimi poeti! La malafede si estende ad un’altra incredibile affermazione: sulla inutilità della poesia (sempre derivante dalla distruzione procurata dalle nuove forme metriche), dal momento che essa si è trasferita (il trasferimento vorrebbe poi dire stemperamento e liquefazione) nella prosa. Ah no, cari signori. La poesia è sempre poesia e la prosa è sempre prosa. C'é tra la prosa e la poesia (qualunque sia la sua veste esteriore: ma quando mai un vestito donnesco o lungo o corto, stretto od ampio ha modificato o soppresso il sesso della donna ?) la stessa differenza che passa tra il camminare e il danzare, tra il parlare e il cantare, tra l’andare a donne e il fare l’amore. Quando si dice di una pagina di prosa che è linea, ciò non significa già che la poesia si sia liquefatta o stia per liquefarsi in prosa; perchè invece ciò sta a dimostrare che il tono dimesso o sommesso della prosa si è alzato, ha acquistato la movenza della danza, il ritmo del canto. Si potrebbero citare infiniti esempi. Basta, fra tutti, quello del bramo dei " Promessi sposi ": l’addio ai monti. Addio monti, sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime ineguali e note a chi è cresciuto tra voi e impresse nella sua mente non meno che lo sia l'aspetto dei suoi più familiari... Sono versi o non sono versi? Perchè mai modernità dovrebbe significare solamente una maggior estensione del campo delle percezioni e una maggiore intensità emotiva, senza che a codesta disponibilità di risorse e di ricchezze corrisponda una adeguata facoltà di usare quei mezzi tecnici d’espressione che solo l’artista ha il diritto (con la conseguente responsabilità) di crearsi di rinnovare e di scegliere come i più convenienti allo sfruttamento di quella disponibilità? Non si va già a caccia, oggi, dai cacciatori, servendosi dell’arco e della fionda, nè si balza all’assalto dagli arditi e dai ribelli con le melagrane per bombe. Tutti i grandi movimenti sociali sono stati sempre profetizzati incoraggiati e accompagnati dalla poesia. Non si comprende perchè essa, proprio oggi, malgrado il suo proverbiale disinteresse dovrebbe adattarsi ad una funzione di Cenerentola rugosa e sedentaria, confinata in un posticino buio accanto al focolaro spento, ed accontentarsi dell’oziosa modesta mansione di istoriare la cenere col bastoncino dal puntale di gomma, tutto scosso dalla paralisi senile. Ecco la ragione per la quale io credo che la poesia moderna non possa non ispirarsi alla civiltà meccanica del nostro tempo. Le macchine e tutte le diavolerie del nostro tempo sono i nostri bellissimi miti vivi. Resta inteso che il potere magico della simultaneità, e cosi della forza di sintesi e di compenetrazione e di dinamismo sconosciuto a tutte le altre arti, è riservato in eterno alla poesia. Soltanto la poesia potrà mescolare sempre, senza confusione, il passato il presente e l'avvenire, la realtà il sogno e la fantasia, e tornare così ad essere la massima e insuperabile espressione artistica dei nostri tempi. L’avvenire è della simultaneità, di cui già hanno l' inebriante fascino della certa conquista i saggi che vanno dalle pagine della mia « Santa Verde » alla Simultanina di MARINETTI. L avvenire è dunque ancora nelle mani dei poeti. Non soltanto quello della lirica, ma anche quello del teatro di prosa. Quando esso si libererà da tutte le cianfrusaglie di cartapesta da tutti i suoi trucchi meschini, da tutte le sue insopportabili convenzioni, e si ucciderà a camminare di pari passo col velocissimo macchinismo, apparirà cosi originale da sembrare una cosa nuova. Come può ammettersi che la maschera e l'ombra (poiché si dice che il cinematografo ha ucciso il teatro di prosa) abbiano sopraffatto la viva bellezza del volto, e la larva e lo spettro soppiantato la gioia elettrica del bellissimo corpo umano agitato da tutte le sue passioni? La parola d'ordine ai giovani poeti dinamici ed avventurosi sia dunque la simultaneità nella lirica e nel teatro. E tale conquista, come la paternità del verso libero che io rivendico in pieno a GIACOMO LEOPARDI come al primo poeta che abbia veramente spezzato tutti i legami e gli impacci della metrica tradizione, rappresenti un nuovo primato del genio futurista del nostro paese. Evviva sempre la povera la diseredata, ma grandissima poesia! CORRADO GOVONI